Puntuale, dopo ogni evento alluvionale, è nuovamente spuntata la polemica relativa alla mancata pulizia e rimozione di sedimenti degli alvei di fiumi e torrenti. Pratiche che, secondo certuni, avrebbero potuto diminuire – se non azzerare – i rischi connessi ai fenomeni alluvionali. Ma è davvero così?
Ne abbiamo parlato insieme al dottor Fabio Luino, geomorfologo, ricercatore presso il CNR IRPI di Torino nonché coordinatore nazionale dell’Area Tematica rischio Geo-Idrologico di SIGEA – Società Italiana di Geologia Ambientale, da oltre 30 anni segue tutti gli eventi di instabilità naturale della nostra penisola.
Puntuale, dopo ogni evento alluvionale, è nuovamente spuntata la polemica relativa alla mancata pulizia e rimozione di sedimenti degli alvei di fiumi e torrenti. Pratiche che, secondo certuni, avrebbero potuto diminuire – se non azzerare – i rischi connessi ai fenomeni alluvionali. Ma è davvero così? Ne abbiamo parlato insieme al dottor Fabio Luino, geomorfologo, ricercatore presso il CNR IRPI di Torino nonché coordinatore nazionale dell’Area Tematica rischio Geo-Idrologico di SIGEA – Società Italiana di Geologia Ambientale, da oltre 30 anni segue tutti gli eventi di instabilità naturale della nostra penisola.
Dottor Luino, molti sono convinti che asportare il materiale sabbioso-ghiaioso dai fiumi possa far aumentare la sezione di deflusso del corso d’acqua e dunque migliorare l’efficienza idraulica, è davvero così?
“Tutte le volte, dopo un evento alluvionale, parte la proposta della banda dei ruspisti che vorrebbe ripulire tutto negli alvei dei corsi d’acqua trasformandoli in piste da Bob! Occorre fare chiarezza e distinguere il materiale lapideo da quello vegetale. Nell’alveo ci sono massi di grandi dimensioni, talora spigolosi, ciottoli arrotondati, ghiaia, sabbia e limo che compongono quel che vene definito il materasso alluvionale. Ha un senso rimuovere i massi di grandi dimensioni soprattutto se sono posizionati presso i ponti: la corrente potrebbe muoverli e farli sbattere contro le pile dei ponti o depositarli proprio sotto l’infrastruttura riducendo la sezione di deflusso (cioè lo spazio per far transitare l’acqua). In questo caso vanno asportati. Ma il resto va lasciato lì. Parliamo invece della vegetazione in alveo: gli alberi cresciuti nel letto del fiume vanno tagliati e possibilmente estirpati perché potrebbero incastrarsi sotto i ponti e creare un pericoloso ostacolo. Gli arbusti no, poiché servono a rallentare la velocità della corrente apportando anche una serie di benefici ambientali come il disinquinamento delle acque e la riduzione della temperatura dell’acqua. Sulle sponde e sugli argini la vegetazione ripariale, come quella degli arbusti con radici fascicolari, va lasciata perché aiuta a mantenere la stabilità degli argini stessi. Insomma alla fine è necessario sempre operare con scienza e conoscenza, moderazione e rispetto”.
Quali sono i problemi in cui si può incorrere asportando sedimenti e vegetazione dai corsi d’acqua?
“Molti sanno che in Italia la pratica dell’estrazione di inerti dai corsi d’acqua è già stata ampiamente utilizzata dal dopoguerra agli Anni ’80 del secolo scorso. Nonostante in Italia l’estrazione di inerti in alveo sia formalmente vietata dagli Anni ’80, per le palesi e nefaste conseguenze che comporta, la richiesta è molto pressante e vengono ancora rilasciate concessioni, generalmente mascherate da motivazioni di tipo idraulico. Asportare il sedimento dai corsi d’acqua ha diversi vantaggi (per chi lo fa): è di facile estrazione; il materiale è di qualità pregevole, poiché risulta già pulito (cioè privo di sedimenti fini), disomogeneo e ben arrotondato; le zone di estrazione sono solitamente vicine ai punti di stoccaggio e di vendita, quindi con costi di trasporto minimi. I costi ambientali? Beh, non sono quasi mai presi in considerazione nelle valutazioni di progetti estrattivi e di conseguenza la risorsa corso d’acqua appare molto più conveniente rispetto ad altre fonti, come le cave. Ma asportare i sedimenti, come è stato ampiamente dimostrato dai fatti e da studi scientifici, altera l’equilibrio del corso d’acqua, che nel giro di qualche anno tenderà a definire un nuovo profilo di equilibrio aumentando la propria azione erosiva sulle sponde e se queste sono protette asportando materiale dal fondo, determinando la scomparsa del materasso alluvionale presente e il conseguente restringimento dell’alveo stesso. Questo comporta un rischio a valle perché accelera e concentra i deflussi (che non sono mai solamente liquidi), accentuando di conseguenza il picco di piena e la sua velocità di trasferimento verso valle. Inoltre, le costose opere di contenimento e di mitigazione dell’erosione realizzate lungo le sponde (scogliere, gabbionate, argini etc.) in molti punti risultano aver perso la propria funzionalità, essendo ormai sospese di diversi metri rispetto alle dinamiche fluviali. Oltre all’abbassamento diretto del livello del fondo nella zona di estrazione, l’escavazione modifica il profilo longitudinale, provocando un aumento locale di pendenza che tende a migrare verso monte, creando una pericolosa erosione regressiva. Chi ne paga le conseguenze sono i ponti. A causa dell’azione della asportazione di inerti dai fiumi, in passato sono crollati diversi ponti per sotto escavazione delle pile: il 29 dicembre 1961 presso Sant’Arcangelo di Romagna (RN) crollarono due arcate di un ponte sul Marecchia e vi furono tre vittime; nel 1973 a Venaria Reale (TO) vi furono 5 vittime per il crollo del ponte e ben 17 persone furono rinviate a giudizio per aver concesso troppi permessi ai cavatori; sempre il 29 maggio 1973 a Caraglio (CN) sul T. Grana crollò un ponte e vi fu un morto. Anche in questo caso il sindaco si scagliò contro il Genio Civile e l’ANAS che avevano consentito troppi interventi in alveo nelle zone prossime al ponte. Questi sono dati inconfutabili”.
Il rilevante danno subito durante le alluvioni è dovuto alla presenza di zone urbanizzate nelle zone prossime agli alvei?
“Purtroppo sì. È sufficiente aprire Google Earth per vedere in quale condizione disastrosa si trovi la penisola italiana. A partire dal dopoguerra, in nome del boom economico, con l’intento di “tirare su” un Paese disastrato, si è consentito tutto, senza regole. E questa anarchia è proseguita almeno fino alla fine degli Anni ’70. Poi ci si è accorti che i buoi erano scappati, ma era troppo tardi: sono state create leggi, decreti, divieti, ma il peggio era stato fatto. E operare a ritroso è sempre complicato. Poi ci si mette anche il Governo con gli assurdi condoni edilizi (3 in 18 anni), permettendo sanatorie inaudite. Ci aggiunga che continuiamo a consumare suolo come se fossimo un Paese con un tasso di natalità in aumento, e invece diminuiamo anno dopo anno. E allora perché continuiamo a consumare nuovo territorio? L’Emilia Romagna poi ha un triste primato: l’ISPRA ha pubblicato una tabella sul consumo di suolo annuale in ettari 2020-2021 in aree a pericolosità idraulica. L’Emilia Romagna è di gran lunga in testa: nelle zone ad elevata pericolosità ha valori che sono più del doppio del Piemonte, quasi il triplo della Toscana. Gli amministratori della vostra regione che ora chiedono lo stato di calamità naturale si pongano delle domande”.
Qual è il suo giudizio sul nodo idraulico modenese? Quali i punti di forza e di debolezza?
“Modena, come ad esempio Alessandria, è una cittadina sorta fra due fiumi: Secchia e Panaro. Il primo si sviluppa per 172 km, il secondo per 148 km. Stranamente hanno superfici simili pari a 2.292 km²: quindi stiamo parlando di una superficie idrografica totale a monte di Modena vasta quasi 4.600 km², come due volte l’intera superficie della provincia di Reggio Emilia! Il nodo idraulico di Modena è un problema che è aumentato nei decenni con l’espansione della città che convive con questa Spada di Damocle sulla testa. Sicuramente le ultime alluvioni hanno riproposto drammaticamente il problema, mettendo in evidenza la fragilità del sistema. So che molto è stato fatto negli ultimi anni, interventi che hanno comportato un investimento di oltre 50 milioni di euro, mentre il totale degli investimenti realizzati o programmati dal 2014 a oggi sfiora i 270 milioni. Hanno realizzato argini, casse di espansione intervenendo sull’intera asta fluviale di Secchia, Panaro, Naviglio e dei loro affluenti. Deve essere ben chiaro che questi interventi mitigheranno il rischio idraulico, ma non metteranno totalmente in sicurezza la città. Mettere in sicurezza è un termine usato da giornalisti e politici che non ha senso in quanto genera nella mente delle persone un senso di falsa sicurezza che può essere molto deleterio. Problemi ve ne saranno ancora”.
Quindi che cosa dovrebbero fare gli Amministratori?
“Bisognerebbe che operassero bene sui cittadini creando in loro, tramite incontri ad hoc con l’ausilio di esperti, innanzitutto una consapevolezza del rischio con cui convivono, poi una profonda conoscenza delle norme comportamentali da tenere durante un evento e infine una rete informatica funzionante di allerta/allarme che consenta di avvertire tutti dell’eventuale imminente pericolo. In due parole: gli edifici saranno sempre esposti al rischio di essere inondati anche alla luce dei mutamenti climatici che in futuro comporteranno piogge sempre più intense in tempi brevi. Almeno istruiamo per bene le persone al fine di salvaguardare le vite umane”.
Jessica Bianchi
(foto: fiume Secchia a Sozzigalli (MO) del 21 maggio 2023. Ph. Fabrizio Bizzarri)